No al finanziamento pubblico dei partiti, riduzione degli stipendi dei politici, limitazione a massimo due mandati, insomma, il popolo vuole dei missionari, degli uomini che, al pari dei preti, abbiano sentito “la chiamata”, la vocazione per il servizio pubblico. Questa idea romantica della politica riporta indietro le lancette di 60 anni: d’altronde è tornato di moda il vintage, vedi la nostalgia per l’art. 18, l’invocazione continua dei padri costituenti, il cui lavoro sacrale sarebbe da preservare intatto in eterno, ad ogni costo. Peccato che molti di questi patrioti siano gli stessi che mai hanno letto la Costituzione, perché, viceversa, non sosterrebbero l’incostituzionalità di questo Governo. Come è noto, infatti, in Italia vige una democrazia rappresentativa parlamentare, pertanto, una volta che il popolo ha eletto i suoi parlamentari, questi possono scegliere come Presidente del consiglio anche il fratello di Renzi (non so se ne abbia).

Ma veniamo ai nostri cari padri costituenti. Il quadro economico del dopo guerra parlava di 4 milioni di italiani che, nell’arco di un anno, non consumavano mai carne, vino o zucchero; parlava di una famiglia su 4 che viveva in case sovraffollate, tuguri o grotte; parlava di abitazioni con latrina nel numero di 5 su 100. La povertà era tale da spingere al varo di una commissione parlamentare sulla miseria. Insomma, era così dura la vita in quell’Italia, che i politici non avrebbero avuto neppure la possibilità di trattarsi troppo bene. Eppure anche loro avevano abbandonato il principio appartenuto allo Statuto Albertino, che prevedeva che le funzioni di senatore e deputato non dovessero dare luogo ad alcuna retribuzione.

L’indennizzo, i nostri padri costituenti, lo percepivano dunque, ma era modesto a tal punto che, ad esempio, il comunista Di Mauro decise di tornare alla più remunerativa professione di medico.

Certo, i casi virtuosi si sprecavano, però le condizioni, allora, erano differenti: la fame di riemergere dopo la guerra mondiale era preminente su tutto; si usciva da una crisi di valori che aveva condotto alla barbarie del nazi-fascismo; era ancora forte il richiamo della patria; vi era la necessità di rideterminare e ricalcare i valori fondanti la comunità, ma, soprattutto, ci si poteva permettere di recarsi a Roma nel solo giorno di giovedì, sia perché i soldi erano pochini, sia perché, obiettivamente, la complessità dei problemi era nettamente inferiore rispetto ai giorni nostri, segnati dalla globalizzazione e dalla moltitudine dei livelli di analisi con i quali scontrarsi. Piccola chiosa: a seguito della riforma costituzionale del Governo Renzi si è affermato che sindaci e consiglieri regionali non avrebbero potuto svolgere efficacemente il proprio ruolo di senatori nel solo weekend, eppure le competenze del nuovo senato sarebbero state ridimensionate; i padri costituenti, invece, riuscivano ad ottemperare ai loro compiti di parlamentari plenipotenziari nell’arco di una sola giornata a settimana.

Passando ai giorni nostri, la situazione che si staglia davanti è nettamente diversa rispetto al passato: la società è permeata da una decadenza morale, da un appagamento figlio del benessere dei decenni passati, costruito proprio sulle fondamenta gettate dal lavoro dei nostri avi politici. Probabilmente la lunga crisi che sta attraversando il nostro Paese fungerà sempre più da pungolo per la discesa in campo della gente comune, la quale, sotto l’etichetta di “società civile”, sta caratterizzando e modificando geneticamente la platea politica. Questo processo porta diritti verso la vecchia regola aurea della politica come servizio pubblico, e ad essa fanno da corollario le leggi non scritte fissate dai nuovi movimenti anti-establishment, i quali spingono per una visione della politica “mordi e fuggi”, che veda protagonisti comuni cittadini quanto più lontani possibile dal mondo dove si apprestano ad entrare. Questo modello, però, sta generando implicazioni negative sempre più evidenti. Fare politica nell’epoca moderna significa interfacciarsi con un modello sociale ed economico nettamente più complesso ed impegnativo, in quanto la globalizzazione e la tecnologia ci consegnano un mondo che viaggia a velocità quadruple rispetto al passato e la cui risoluzione delle problematiche si è spostata da un piano nazionale ad uno sovranazionale.

Come è possibile, allora, pensare che un profano della politica possa d’amblé cimentarsi con un sistema che vive di leggi e problemi propri, peculiari, non trasponibili da altri ambiti.

Purtroppo, per contrastare la vecchia politica, non si può pagare lo scotto del vivere una perenne fase di rodaggio, perché è questo che accadrebbe assecondando l’impetuoso vento dell’anti-politica. In fondo, è come se ci si rivolgesse ad un avvocato che non è mai entrato in tribunale, o ad un giudice che non ha mai deciso una causa. L’errore consiste nel ritenere la politica come una cosa a se stante, quando invece è da considerare tout court una professione, con i suoi aspetti peculiari, con le sue dinamiche, con le sue problematiche che non somigliano a nessun altro lavoro. D’altronde, se quella dell’amministratore di condominio è considerata una professione, che si può svolgere previo corso di formazione, non si comprende per quale motivo un lavoro gravoso e di responsabilità come quello del politico debba essere derubricato a servizio pubblico.

E’ proprio tale clima che impedisce la discesa in campo delle menti più brillanti, delle persone che, fino a prova contraria, definiamo “migliori”.

Nichi Vendola – seppure deprecabile è da considerare la sua scelta di usufruire del doppio vitalizio da parlamentare e da governatore della Puglia – espresse un concetto semplice ma efficace: “Sono sceso in politica perché vi erano queste regole del gioco, viceversa non l’avrei fatto”. In effetti, perché mai professionisti, imprenditori, insomma, gente per bene, capace, dovrebbe impegnarsi in questo ambito, consapevole di dover fronteggiare un clima sfavorevole, di non poter utilizzare il know-how accumulato in politica per via del vincolo dei due mandati, senza poterne fare un lavoro?

Il mondo, in 60 anni, è cambiato, e sono davvero in pochi coloro i quali si mettono in gioco per spirito di servizio. E’ allora giusto gratificare le migliori risorse, incentivarle a scendere in campo, perché no, aumentando pure gli stipendi, perché, se svolto con onore e competenza, il mestiere del politico poco differisce da quello del manager del settore privato.

Sarebbe allora il caso che non resti lettera morta il refrain sulla necessità di gestire gli enti pubblici come fossero un’azienda privata, che si creino le condizioni affinché nascano figure manageriali che possano affrontare con professionalità e competenza le problematiche precipue che pone la politica.

La riduzione dei costi della politica, in fondo, non dipende certo dagli stipendi, ma dai benefit e dalle ruberie che si perpetrano quotidianamente. Cambiare il sistema pensionistico dei politici, tarandolo secondo le regole generali, andrebbe ad esempio a compensare l’aumento degli stipendi.

Oltre a strappare le migliori risorse dal settore privato, altra esigenza ineludibile è quella di formare professionalmente la classe politica: fino ad oggi, tale compito spettava ai partiti. Basta però recarsi presso qualsiasi sede di partito per comprenderne il totale decadimento; essi, oramai, rappresentano soltanto l’involucro che nasconde accozzaglie di comitati d’interessi particolari.

Per superare tale empasse, allora, bisognerebbe fare un salto di qualità culturale, che capovolga l’attuale prospettiva e orientarsi verso un auspicabile pragmatismo. E’ necessario abbandonare, pertanto, l’utopistica concezione del politico come missionario pro-tempore, e ripensarlo come professionista: ciò, presupporrebbe, allora, l’istituzione di università ad hoc, di master, di corsi di formazione, il tutto, con la previsione di tirocini presso gli assessorati ed i ministeri. In tal modo si attenuerebbe il perdurante “effetto rodaggio” col quale saremmo destinati, altrimenti, a scontrarci e si riuscirebbero a formare, finalmente, figure in grado di interfacciarsi idoneamente con l’apparato dirigenziale, senza demandarne compiti e visioni, che invece dovrebbero competere ai politici.

L’esempio di Virginia Raggi, in fondo, è emblematico: seppure la stessa sia un brillante avvocato, mai avrebbe potuto conoscere approfonditamente i complessi meccanismi della politica. Come detto precedentemente, infatti, equivarrebbe a chiederle di seguire brillantemente ed efficacemente una causa civile senza mai mettere prima piede in un tribunale.

Questo gap, di conseguenza, l’ha costretta a demandare carta bianca al dirigente “esperto” di turno, con i risultati che tutti conosciamo.

La bontà di un politico non la determina la carta d’identità, la verginità (o Virginia…tà) politica, anzi, questi elementi costituiscono spesso fonte di incertezza ed inefficienza. La differenza, invece, la fanno la competenza, la capacità di risolvere i problemi reali che la politica pone davanti, le qualità morali: per provare ad ottenere ciò, la strada da percorrere è quella dell’equiparazione formale e sostanziale della figura del manager pubblico a quella del manager privato.

In una Nazione piena di preconcetti e corporativismi, che vuole ripristinare l’art 18, che difende il bicameralismo perfetto ed il Cnel, però, questo discorso è utopistico almeno quanto la ricerca di “politici samaritani”.

 

Andrea Pezzuto
Redazione

LASCIA UN COMMENTO