Alla fine di ogni anno, e specie di questo malevolo 2020 segnato dalla pandemia, ecco la corsa ad invocare la speranza salvifica. I gran sacerdoti sono sempre gli stessi: il Papa, Enzo Bianchi, Scalfari e, sull’altra sponda, Augias, Galimberti, Recalcati. A questi esercizi di stile, alti ma a volte un po’ retorici e calligrafici, voglio aggiungere le mie modeste riflessioni.
La dea spes, al pari del dio Ianus, ha due facce. E’ una virtù teologale praticata dai credenti (binomio spes-salus), ed è anche una semplice, umanissima, aspettativa laica (binomio spes-fortuna). In entrami i casi si attribuisce alla speranza un valore positivo, anche se a volte “passivo”. Ma è proprio sicuro che la spes sia un bene?
In Esiodo si legge che Elpis era rimasta sul fondo del Pithos di Pandora e, solo in un secondo momento fuoruscì dal vaso. Quindi, poiché il contenitore racchiudeva tutti i mali che Zeus voleva far diffondere tra gli umani, c’è il fondato sospetto che anche Elpis fosse una iattura, un’illusione ingannatrice in grado di portare delusione (“La speranza che delude sempre”, canta Turandot), sconforto, disperazione. Speranza non semplice “sogno dell’uomo sveglio”, come sosteneva lo Stagirita, ma piuttosto, montalianamente, un “imprevisto” casuale che ci ristora durante il nostro “viaggio” tra “i cascami in cui viviamo”. Sulla stessa linea il Bardo, quando sentenzia “Il misero non ha altra medicina che la speranza”.
Ora però facciamo un salto indietro tornando ad un classico latino del primo secolo a.C. per poi passare in breve rassegna altri grandi autori del passato che hanno esternato il loro pensiero su questo delicato argomento.
“Desine fata deum flecti sperare precando”(smettila di sperare che i fati divini possano essere piegati dalle preghiere). Così Virgilio fa parlare Enea nel VI libro dell’Eneide. Insomma il pio Enea quasi come l’empio Cesare (“…O cara speranza,/quel giorno capiremo/anche noi/ che sei la vita e sei/il nulla.”).
Padre Dante, invece, da buon cristiano, è un convinto nutritore di speranza, che considera attesa certa della futura beatitudine, garantita dalla grazia divina. (questi i versi precisi della definizione: Spene, diss’io, è un’attender certo/ de la gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto (CANTO XXV Paradiso, vv. 66-69). Il Nostro è’ così ferrato in materia che, nella medesima cantica, supera addirittura un esame sull’argomento, interrogato dal “professor” San Iacopo Maggiore, un’autorità in materia.
Ovviamente il Manzoni, con molta coerenza, ne “I Promessi sposi” adotta la linea dell’accoppiata “Spes-Provvidentia”. Giacomo Leopardi mi pare invece che abbia a proposito idee un tantino incoerenti. “O speranze, speranze, ameni inganni della mia prima età”, canta nelle Ricordanze e, nella celebre “A Silvia” ”Che pensieri soavi,/che speranze, che cori, o Silvia mia!”. Nello Zibaldone, invece, più volte rimarca che “la speranza “è una passione così inerente e inseparabile dal desiderio della vita perché la vita e la mancanza di speranza sono cose contraddittorie. Non è “ragionevole”, però è comunque “naturale” perseguire un sogno di salvezza. “Chi nulla spera non sente e non compatisce”. Ma in un altro pensiero afferma che “la speranza riposata si addice agli adolescenti” (forse a quelli del suo tempo, ora i “ragazzi”, definizione che copre la fascia d’età tra i 14 e i 40 anni) sono ben diversi! Il fatto è che oggigiorno non ci sono più “giovani di belle speranze”, ma soggetti che hanno fatalmente abbracciato il concetto di “disperanza”, che non è affatto disperazione (stato di abbattimento e di sconforto totale), ma soltanto assenza di speranza, un sentimento neutro, fatalista e rassegnato).
Nel “Sabato del villaggio”, “il giovane favoloso” scrive che proprio quello è “il più gradito giorno, pieno di speme e di gioia: Diman tristezza e noia recheran l’ore”, mentre al “Passeggere” del dialogo con il venditore di almanacchi fa dire: “Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata ma la futura, Con l’anno nuovo, il caso ci incomincerà a trattare bene e si principierà la vita felice. Non è vero?”, domanda al venditore. E questi di rimando: “Speriamo” (senza punto esclamativo!). La divergenza dicotomica è sempre quella: da una parte la spes come virtù producente, dall’altra la spes vizio sterile.
Com’è risaputo, il contino Leopardi è sempre stato considerato un campione del “pessimismo cosmico”, però … non è certo l’unico! Ce ne sono altri, per esempio c’è il grandissimo scrittore e poeta lusitano Fernando Pessoa, poco noto e letto in Italia. Vedete cosa scrive nel pensiero 21 del “libro dell’ inquietitudine”, firmato con uno dei suoi eteronimi, in questo caso Bernando Soares: “Sento una grande speranza, ma riconosco che è di tipo letteraria. Sperare? Cosa devo sperare? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. L’unica cosa che posso sperare è che questo giorno abbia una fine, come tutti i giorni. Anche la ragione vede l’aurora. La speranza che ho riposto in essa, se mai c’era, non era mia: era quella degli uomini che vivono l’ora che passa e dei quali ho assunto, senza volerlo, la consapevolezza esterna in questo momento.”. In un suo aforisma dice questa frase lapidaria ma folgorante “Aspettare il meglio e prepararsi al peggio”.
Torna ancora una volta la domanda di fondo: La speranza è un’aspettativa fondata, o solo una trappola illusoria? Ci possiamo accontentare dell’ ”Andrà tutto bene?” basato su di un ottimismo conativo, rassicurante ma vago e aleatorio, o sarà meglio puntare su quel “principio di speranza” di cui ha teorizzato Ernst Bloch? Perché, per il filosofo tedesco poi preso come riferimento dai sociologi moderni, primo fra tutti dall’inglese Antony Giddens, la speranza non è sentimento molle e passivo da pulpito o da salotto televisivo o da social; essa costituisce un forte e determinato istinto di sopravvivenza e di volontà di cambiamento: anche se le cose sono senza speranza, bisogna essere risoluti a cambiarle. Bloch scrive “Noi dobbiamo imparare a sperare“. ( non posso che tornare un attimo a Pessoa, il quale, già vent’anni prima, aveva anticipato il pensatore tedesco con questa acuta massima “Ogni uomo d’azione fondamentalmente è operoso e ottimista perché chi non prova sentimenti è felice. Un uomo d’azione si riconosce perché è sempre bendisposto”). Ottimismo razionale e volitivo, quindi, proprio come quello del “principio di speranza”, che è imperativo categorico (“Devi crederci!”), determinazione razionale, rabbia, strategia operativa. Un impegno sociale, una tensione positiva e fattiva, che ci deve portare ad un approdo certo e ad un futuro non radioso (da sogno) ma dignitoso (da realtà). Metabolizziamo questa consapevolezza e non perderemo questa sfida epocale.
Mi accorgo di essere andato un po’ lungo, e forse di essere anch’io caduto nella fatale buca della retorica, ma voglio “sperare” nell’indulgenza dei pazienti lettori, ai quali auguro un felice 2021, nella misura in cui noi tutti sapremo renderlo tale.
Gabriele D’Amelj Melodia