Un “mi piace” espresso all’esistenza di una pagina ritenuta essa stessa diffamatoria e minacciosa su Facebook ad un commento ingiurioso può giustificare una condanna. Lo sostiene il Tribunale distrettuale di Zurigo in una sentenza contro un uomo che ha dato dell’«antisemita» all’animalista Erwin Kessler. L’imputato, un 45enne, è stato condannato in prima istanza a una pena pecuniaria di 40 aliquote da 100 franchi per diffamazione. Contro la decisione è ancora possibile un ricorso al Tribunale cantonale. Stando all’atto d’accusa, oltre ad avere usato appellativi come «antisemita», «razzista» e «fascista» contro Erwin Kessler e contro la sua Associazione contro le fabbriche d’animali (Vgt), il 45enne ha commentato con dei “like” e ha inserito diversi rimandi verso contributi di altre persone con commenti analoghi. Tutte queste affermazioni sono evidentemente lesive dell’onore.
Poco importa, scrive il giudice unico, se l’imputato abbia messo i “mi piace” a commenti fatti da altre persone. Con le sue condivisioni, l’uomo ha reso accessibile a un gran numero di persone giudizi penalmente perseguibili. L’imputato non è peraltro riuscito a fornire le prove o motivi fondati per sostenere che le sue affermazioni non fossero lesive della personalità, si legge ancora nella sentenza. Fatto sta, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che non è necessario essere l’autore del profilo per essere potenziale colpevole di un reato, basta esprimere il proprio consenso al suo contenuto. Ma questo non è l’unico o ultimo caso di persona rimasta schiacciata, per un gesto che la maggior parte delle volte viene compiuto senza neanche pensarci, dal coinvolgimento emotivo in questioni che meritano attenzione nella vita virtuale come in quella reale. E’ bene ricordare che il reato di diffamazione, nel diritto penale italiano, è il delitto previsto dall’art. 595 del Codice penale secondo cui: «Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro. Se è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad 516 euro. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate».