«Lo sanno tutti che le cose si incastrano, che i pezzi del mosaico vanno al loro posto, prima o poi, eppure quando succede sembra sempre una magia»: pure stavolta Alessandro Robecchi ci consegna una storia che è un ben congegnato meccanismo narrativo in cui ciascuna tessera trova il proprio senso e dove si combinano, fino a farne un tratto distintivo della sua scrittura, delitto, mistero, ironia e un pizzico di sana filosofia applicata alle situazioni della vita. Follia maggiore (Sellerio) è un giallo in cui tornano i personaggi di cui Robecchi ha già affidato stralci di esistenza ai precedenti romanzi: Carlo Monterossi e Oscar Falcone (due investigatori uniti da un nuovo incarico, affidato loro da un misterioso operatore finanziario con cui calarsi in nostalgiche ambientazioni da melodramma ottocentesco) e i sovrintendenti di polizia Ghezzi e Carella, che al formalismo dei protocolli preferiscono la tenace ricerca della verità per le strade bagnate dall’incessante pioggia milanese, nella rabbia dei toni, nei caffè bevuti in squallidi bar di periferia.
A far da motore all’intera vicenda è un omicidio che si consuma non lungo un vialone scarsamente illuminato ai margini della città, ma davanti al portone di un palazzo della Milano bene: una morte che, nella sua crudele banalità, riunirà i destini di diverse persone, eliminerà le tracce di alcuni sogni per farne apparire di nuovi, ma soprattutto lascerà scoperta la brulicante disperazione di un ceto medio in affanno, stretto nelle maglie di una criminalità che non perdona e il bisogno di salvare qualche apparenza. Follia maggiore getta una luce amara su questo nostro mondo e lo fa perché è nella natura del giallo restituire su pagina i frammenti più dolorosi della società in cui si generano le perversioni, le devianze, le ossessioni di cui poi racconta. Eppure nel libro c’è anche spazio per l’ironia, per la vena d’umorismo che salva dalla malinconia dei rimpianti e per il sorriso con cui si può affrontare il conto delle settimane di vita che restano («E comunque, dopotutto, secondo i calcoli del vecchio Serrani, gliene restano ancora milleseicentotrentacinque. E mezzo»).
Diana A. Politano