«IL RUMORE DELL’AMORE», I QUADRI IN DANZA DI UN SENTIMENTO ASSOLUTO
È andato in scena ieri sera al Teatro Verdi «Il rumore dell’amore», spettacolo di danza nato da un’idea di Vito Alfarano per la regia di Luigi Marangoni. Una sintassi raffinata con quattro danzatori in scena, con Alfarano anche Stefania Catarinella, Federica Iacuzzi e Daniele “Billy” Corsa, che hanno percorso le silenziose e fragorose stagioni dell’amore seguendo le battute scandite da Roland Barthes nel suo «Frammenti di un discorso amoroso». E così, Alfarano, brindisino di ritorno, disegna la sua coreografia ricomponendo una materia deteriorabile come l’amore nella sola struttura che ne possa evitare la banalizzazione: frammentaria, come i rintocchi dell’anima, come gli stati di un amore compreso nella sua totalità.
Lo spettacolo si dipana per quadri, dal rapimento all’eternità, dall’assenza al voler prendere fino alla dipendenza. Tutte le facce dell’amore, divise soltanto per differenza temporale, ma accomunate da una stessa esperienza duale di verità. L’allestimento ripercorre la struttura del libro del pensatore francese, un discorso di solitudine che non ha trama, se non quella dell’indagine dei movimenti amorosi. Che Vito Alfarano trasferisce sul palcoscenico facendone una danza per segmenti indipendenti: ogni capitolo, così come ogni quadro dello spettacolo, si può leggere adesso e il successivo tra cinque anni, ricostruendo uno specchio bellissimo per riflettere, pensare, decidere, paragonare la nostra storia a quella degli innamorati celebrati nella letteratura.
Come Paolo e Francesca, gli amanti cognati che Dante scaraventa nella bufera eterna dell’Inferno ma che, contestualmente, consacra a simboli di un amore che resiste a tutto, alle prove ultraterrene più strazianti e impietose. Sono loro le anime iconiche dello spettacolo, sublimazione del sentimento più potente che supera lo spazio e anche il tempo. Alfarano lo fa con il supporto delle videoproiezioni, frammenti d’amore ritagliati in un carcere, per questo pregni di urgenza e verità, e nei pensieri sibillini consegnati sopra i muri. Tutti tasselli che compongono il lessico dell’innamorato, che Alfarano mette in scena in tutta la loro potenza e fragilità.
L’amore è ancora un discorso rivoluzionario, fatto di “rumori” che sanno frastornare o blandire, imbastito su un glossario che, nonostante virate e picchiate improvvise, riesce sempre ad emozionare. E invitare alla vita. Come quel “ti amo” finale inerpicato su una pila di trespoli, sussurrato, confessato, rivelato, infiorato con un tulipano, sillabato, offerto, infine urlato… con tutto l’amore che c’è!