Il tema del power-dressing: di che si tratta e perché è una lotta agli stereotipi di genere

Foto credit Robert Knudsen per The New York Times
Foto credit Robert Knudsen per The New York Times

Essendo la moda un complesso sistema di comunicazione, essa agisce nel sociale. Di grande impatto è l’utilizzo della moda nel mondo del lavoro (e in particolare modo nel campo politico) come strategia di comunicazione di valori e ideali.

Stando ai saggi di Roland Barthes, critico letterario e semiotico francese, agli inizi del XIX secolo il vestito dell’uomo viene reso il più semplice possibile, mescolando lo stile e l’utilizzo dell’uniforme militare, da cui discendono la giacca e il classico suit borghese.

Ma qual è il corrispettivo femminile al completo maschile elegante utilizzato negli uffici e nei luoghi di lavoro?

Nasce così l’espressione power pressing, entrata recentemente nel gergo della pubblicistica di moda per indicare uno stile finalizzato a esercitare un ruolo di potere. Viene però usata soprattutto in riferimento alle donne,  dando implicitamente per scontato che le donne abbiano bisogno di “travestirsi da potenti” secondo modelli, etichette e stereotipi.

Il tema del power dressing, in teoria, farebbe riferimento sia all’universo maschile che a quello femminile ma è chiaro che, nella pratica, si fa riferimento all’adattamento del codice d’abbigliamento femminile a quello maschile, in modo da richiamare quell’esercizio di presa di posizione e potere in ambito pressoché politico ed economico.

Nel corso degli anni ’30, Elsa Schiaparelli, stilista e sarte italiana naturalizzata francese r già nota per i dettagli illusionistici delle sue creazioni, esplorò l’utilizzo delle spalline imbottite sull’abito da donna, dandone una personale interpretazione.  Ispirandosi alle divise militari del dopoguerra e agli spigolosi angoli dei grattacieli che cominciavano a essere costruiti in quegli anni, la stilista prese questi elementi di riferimento per donare linee scultoree e carattere audace alla figura femminile.
Ulteriori e successivi esempi di power dressing e di innovative creazioni sono stilisti come Giorgio Armani108 negli anni ‘80 e Yves Saint Laurent già a partire dalla fine degli anni ’60.
A quest’ultimo si deve la sfida lanciata al codice d’abbigliamento dell’haute couture di quel tempo quando, nel 1966, creò una collezione di smoking pensati per le donne.

Foto Credit The Standard
Foto Credit The Standard

Nato come indumento esclusivamente da uomo, lo smoking (o il completo) era il capo d’abbigliamento che aveva lo scopo di proteggere gli abiti dall’odore dei sigari delle sale per fumatori, dalle quali prende il nome. Creando lo smoking femminile, Saint Laurent fece comprendere al mondo intero che l’abito da uomo era simbolo di potere che, se le le donne si fossero “vestite” da uomo, ne avrebbero guadagnato questo attributo quasi per osmosi.

L’emblema della donna in carriera che tenta di occupare posizioni sempre più alte e nel mondo degli affari è un tema molto sentito soprattutto sul suolo americano per quanto riguarda le First Ladies che a volte, purtroppo, vengono viste e identificate come un oggetto o un trofeo accanto al proprio marito che ha invece il ruolo di Presidente. Per sopravvivere a questo stereotipi, le donne hanno dovuto creare un dresscode che definisse il loro status che non le ponesse in competizione con il proprio consorte, tutto questo attraverso l’abito.

È il caso, per fare un esempio, di figure come Jacqueline Kennedy, la prima ad aver rinnovato il ruolo da First Lady e che inaugurò il power pressing diventando un’icona di stile: viene ricordata infatti con un tailleur rosa disegnato da Chanel. Con la creazione del tailleur, Coco Chanel volle portare al mondo la figura della donna con una carriera ideando e creando un capo d’abbigliamento del tutto nuovo. Osservando l’abbigliamento del suo compagno, connubio perfetto tra praticità ed eleganza, decise di realizzare l’equivalente per le donne che ancora utilizzavano il corsetto. Liberandole da questa costrizione, l’idea fu quella di creare un abito elegante ma comodo: il materiale da lei scelto fu esattamente il tweed, un tessuto in lana tipico della Scozia, fino a quel momento riservato solo all’abbigliamento maschile. Invece di colori scuri, il tweed venne reso più femminile nelle trame e in colori tenui e pastello, mentre il taglio del completo maschile venne modificato con una giacca senza colletto ma con quattro tasche e, al posto dei pantaloni, una gonna longuette al ginocchio coordinata alla giacca.

Il designer ufficiale di Jacqueline Kennedy, Oleg cassini, rilasciò un’intervista dove dichiarava che le sue scelte per gli abiti della first lady erano dettate dal voler fare di lei “una persona”, in modo che apparisse luminosa e che si distinguesse.

Aurora Lezzi

CONDIVIDI

LASCIA UN COMMENTO