INTERVISTA – A otto anni dal memorabile esodo di Scafati, Perdichizzi si racconta: “Guardo spesso la partita contro Trapani e mi vengono ancora i brividi”

BRINDISI – 17 aprile 2010, PalaMangano di Scafati: i gradoni della curva sud e le due tribune dell’impianto campano sono un’esplosione di bianco e di azzurro. I cori si alzano alti, altissimi già due ore prima della palla a due: troppe la gioia e la frustrazione da sfogare, troppa l’emozione di ritornare nell’olimpo del basket a distanza di 29 lunghissimi anni dall’impresa di Piero Pasini.

Ecco, quel mix esplosivo di emozioni è tutto condensato su quei gradoni e per detonare completamente aspetta soltanto che dal tunnel faccia capolino l’uomo del miracolo, lo sceriffo Giovanni Perdichizzi.

Lui esce finalmente dal tunnel, si dirige verso la marea biancazzurra e con la faccia stravolta per l’emozione e gli occhi colmi di lacrime di gioia e di orgoglio si batte ripetutamente la mano sul cuore. Ecco, in quell’istante per i brindisini l’universo era Giovanni Perdichizzi, ed il boato al suo ingresso in campo verrà tramandato per generazioni, proprio come accaduto per le gesta di Malagoli, Howard e Pasini, perché lo sceriffo è entrato a pieno titolo nella Hall of Fame della gloriosa storia del basket brindisino.

Ed a distanza di 8 anni da quel giorno Giovanni Perdichizzi si ritrova ad allenare proprio la Scafati dello storico Presidente Aniello Longobardi. In realtà nulla sembra cambiato: nonostante gli obiettivi stagionali di Scafati non contemplino al momento il ritorno di A1, lo sceriffo, al terzo anno in Campania, ha terminato in vetta la stagione 2015-2016 fermandosi in semifinale contro Brescia e adesso è secondo in classifica nonostante i numerosi contrattempi occorsi.

Lui dice che non è ancora arrivato il momento del salto di categoria, ma se gli dei del basket dovessero esistere, dovrebbero concedergli  l’ennesima promozione in carriera, perché questa gli permetterebbe finalmente di chiudere il cerchio e di ritornare sulla panchina del PalaPentassuglia per ricevere il giusto ringraziamento strozzato dalla brusca interruzione del rapporto dopo la trasferta di Teramo.

Lei è alla sua terza stagione nella Scafati del Presidente Aniello Longombardi, prima ancora è stato alle dipendenze di Enzo Sindoni a Capo d’Orlando e di Immacolato Bonina a Barcellona Pozzo di Gotto. Viene da chiedersi se non ricerchi scientemente di lavorare per presidenti “vulcanici”.

<<Li ricerco questi personaggi. No, a parte gli scherzi è una coincidenza, però devo dire che mi sono sempre trovato bene con loro e non ho avuto grosse problematiche.

Sindoni aveva la mania di cambiare tanti allenatori ma dal 2004, ovvero dal mio arrivo, ha cambiato abitudine. Con Longobardi, invece, penso di aver battuto tutti i record degli allenatori rimasti a Scafati, perché sono oramai al terzo anno di fila. Bonina, dei tre, è il più passionale, mentre gli altri due sono molto competenti perché hanno vissuto tanto in questo ambiente, conoscono la pallacanestro ed è anche un piacere parlare con loro in sede di programmazione e di costruzione della squadra perché ti seguono in tutto e per tutto.

E poi, siccome si tratta di piazze dove la pressione mediatica o del pubblico è limitata, qualcuno che mette un po’ di pressione ci deve essere e questo ruolo lo ricoprono loro, però questa pressione è tutto sommato positiva. Ecco, rispetto a Brindisi, dove magari l’impatto mediatico e del pubblico era importante mentre la società tendeva a non mettere eccessiva pressione, a Scafati o a Capo d’Orlando avviene un po’ il contrario.

A me piace avvertire la giusta pressione, quindi è bene che qualcuno la metta.

Utilizza ancora i suoi appunti di quando lavorava in assicurazione a Barcellona Pozzo di Gotto?

<<Quello oramai è nel mio bagaglio, anche se ogni tanto vado a rispolverare alcune situazioni. Diciamo che, provenendo dal settore assicurativo dove gestivo le risorse umane delle agenzie assicurative ed adoperavo le tecniche motivazionali, questo è effettivamente il mio pane. Sono state tutte tecniche e nozioni che mi sono portato dentro e che ormai fanno parte del mio modo di vivere e di gestire le persone, e devo dire che mi è stato di grandissimo aiuto, assieme ovviamente alle conoscenze tecniche che poi vengono via via affinate>>.

Quanto di quelle competenze acquisite c’è nella gestione di gruppi come quello della Capo d’Orlando che da ripescata in A2 salì in A1 con 27 vinte e 3 perse o quello della Brindisi della stagione di B1 che dal suo avvento in corsa vinse 16 partite di fila centrando la promozione?

<<Quando ne vinci tante di seguito la cosa importante è mantenere il gruppo motivato, fornirgli sempre obiettivi nuovi ed ambiziosi per i quali il gruppo deve produrre ulteriori sforzi mentali, fisici e tecnici. Ritengo che gli obiettivi ambiziosi sono quelli che scatenano dentro i singoli quella voglia di alzare l’asticella. Ricordo che con Capo d’Orlando la nostra antagonista era la Virtus Bologna e che per batterli dovevamo alzare l’asticella in tutto quello che facevamo.

All’esterno deve essere data una linea coerente con gli obiettivi stagionali, però poi parlando con il gruppo all’interno dello spogliatoio l’obiettivo deve essere ambizioso: se bisogna raggiungere la salvezza, probabilmente la sfida che devi lanciare ai giocatori è l’ingresso nei playoff. E’ normale poi che l’obiettivo ambizioso deve essere tarato rispetto al budget a disposizione ed al tipo di squadra costruita>>.

 Tornando alla sua carriera: le tre istantanee più belle?

<<L’arrivo a Brindisi, la prima conferenza stampa in cui i giornalisti ed i tifosi mi guardavano e pensavano: ‘Chi te l’ha fatta a fare?’. Quella è la prima istantanea di Brindisi.

Poi c’è la vittoria del campionato con Capo d’Orlando, quello che tuttora è considerato il campionato dei record: nonostante da ripescati l’obiettivo fosse quello di salvarci riuscimmo ad avere la meglio sulla Virtus Bologna.

E poi, un flash indimenticabile è la promozione in A2 ottenuta con Barcellona nella stagione ‘98/99: facemmo 4 promozioni in 6 anni, dalla Serie D all’A2, e l’anno successivo perdemmo la finale per accedere in A1 contro Udine, che nel frattempo si era rinforzata con Charles Smith.

Come anche un ricordo indelebile è la vittoria del campionato con Brindisi avvenuta in albergo proprio qui a Scafati, con i 2.000 brindisini che nonostante la promozione già ottenuta si catapultarono a Scafati per festeggiare assieme a noi la promozione.

Sono questi i momenti che mi rimangono dentro>>.

 I tre giocatori che l’hanno entusiasmata di più da allenatore?

<<Sicuramente di quelli recenti dico McIntyre  e Brian Oliver che ho avuto a Capo d’Orlando: uno era sconosciuto mentre l’altro era verso la fine della carriera.

E poi un giocatore che molti hanno dimenticato ma che ho avuto la fortuna di allenare a Messina nel 2002-2003 è Matt Bonner, che poi ha giocato tanti anni in Nba con i San Antonio Spurs.

Anche Omar Thomas era un giocatore al quale ero molto legato ed ho sofferto tantissimo all’epoca, quando chiesi la sua riconferma ma non mi seguirono. Thomas era uno dei paletti fissi che avevo messo nella costruzione della squadra: lui sarebbe rimasto, avrebbe voluto solo un ritocco all’ingaggio che secondo me era dovuto essendo stato il miglior giocatore del campionato. Era una cosa da fare, soprattutto se si pensa che si sono andati a pagare di più giocatori che in carriera hanno vinto niente o poco e che non erano paragonabili a Omar Thomas né per attaccamento né per qualità tecniche ed umane. In fondo, si trattava di un giusto riconoscimento nei suoi confronti, visto che aveva riportato Brindisi in A1 dopo 29 anni, ed anche nei miei confronti, che avevo caldeggiato la sua conferma in quanto avrebbe dovuto rappresentare il primo paletto della nuova squadra.

Anche quell’anno, comunque, è servito alla società perché ha capito che si doveva dotare di un management professionale.

Le società devono investire su dirigenti e tecnici, a maggior ragione se le risorse sono limitate. Spesso le società si concentrano invece sull’acquisto dei giocatori, tralasciando quello che è il vero motore, ovvero staff competenti che possano far migliorare i giocatori e dirigenti che gestiscano con oculatezza le risorse. Parliamoci chiaro: la crisi della pallacanestro nostrana viene soprattutto dalla carenza di dirigenti adeguati>>.

Capo d’Orlando e Brindisi: due amori indimenticabili che adesso si ritrovano a giocarsi la salvezza assieme a Pesaro e Pistoia. Come vede questa lotta e come spiega le difficoltà incontrate quest’anno da Capo d’Orlando?

<<Secondo me lo scudetto di Capo d’Orlando è la salvezza. Detto questo, la Champions gli ha tolto energie, perché i viaggi sono lunghi e secondo me hanno sottovalutato l’impatto che questo poteva  avere sulla squadra in termini di energie fisiche e mentali. E poi qualche scommessa su alcuni giocatori non è andata a buon fine. Loro, però, differentemente da Brindisi sono abituati a lottare per quel tipo di obiettivo, per cui anche le 11 sconfitte consecutive le vivono con tranquillità.

Mi ricordo il primo anno di A1 a Capo d’Orlando quando  facemmo 6 sconfitte consecutive: anche se avevo vinto il campionato l’anno prima sentivo anche io di dovermi confrontare con il Presidente e di spiegargli che anche io mi sentivo in discussione. La risposta di Sindoni fu: ‘Giovanni, tu puoi perdere da ora fino alla fine dell’anno, ma sei e resterai l’allenatore di Capo d’Orlando comunque vada. Concentrati sul darmi nomi di giocatori da prendere per puntellare la squadra’. Alla fine ci salvammo per due anni consecutivi.

A Brindisi, invece, è più difficile vivere nelle sconfitte, anche perché Brindisi è sempre stata abituata a primeggiare. La vittoria ottenuta domenica contro Pesaro, però, penso sia stata fondamentale  per mettere un’ipoteca sul discorso salvezza. Certo, in Serie A il rischio di abbassare la guardia viene pagato a caro prezzo: bisogna quindi avere la consapevolezza di aver messo un mattone  importante, ma bisogna ancora mettere il tetto.

Ritengo comunque che il discorso salvezza riguarderà Pesaro e Capo d’Orlando>>.

 Che giudizio si è fatto della Brindisi di quest’anno?

<<Ci ho giocato contro in precampionato e sinceramente non mi aveva fatto una buona impressione, considerando anche il divario di categoria tra noi e loro. Non mi aveva fatto una buona impressione anche rispetto alle squadre che aveva allestito Brindisi nelle precedenti stagioni.

E’ vero che in estate ci sono anche differenti carichi di lavoro che incidono, però la sensazione che ho avuto è che ci fossero problemi di natura tecnica più che fisica. Ritengo comunque che, in base al budget a disposizione, Brindisi abbia prodotto il massimo sforzo per allestire una squadra competitiva: certo, non è una squadra che può ambire ai posti alti. Quella vista con Vitucci, comunque, è già una squadra più quadrata, anche grazie a qualche correttivo apportato>>.

Tutti hanno ancora impressa l’immagine di lei che esce dal tunnel di Scafati e quasi in lacrime si batte il pugno sul cuore sotto la curva. Ecco, se guarda indietro e pensa alla gente in fila dalla mezzanotte per reperire un abbonamento per il campionato di Legadue, se pensa al palazzetto pieno già tre ore prima della palla a due, se pensa alle 3.000 persone di Roma ed alle 2.000 di Scafati: cosa le provocano questi ricordi ed a cosa era dovuta secondo lei quella lucida follia collettiva?

<<Ricordo che nella mia prima partita in B d’Eccellenza con Brindisi arrivai un’ora e mezza prima al palazzetto e chiesi ai vigili: ‘Ma è successo qualcosa?’. Il fatto che Brindisi aspettasse da 22 anni il ritorno in A2 e da 29 anni quello in Serie A ha ingenerato grande entusiasmo. Poi una volta che ci si assesta, è normale che tutte le piazze abbiano un senso di appagamento dopo un paio di anni. Però vedendo le immagini e sentendo quasi quotidianamente i tanti amici che ho lasciato a Brindisi, noto comunque che l’entusiasmo c’è sempre. Probabilmente non c’è quel tifo, quel calore, quell’attesa spasmodica della partita che c’era prima, però ritengo che sia dovuto all’appagamento di disputare sempre lo stesso campionato.

Detto ciò, secondo me era fuori misura, fuori dalla realtà tutto quello che accadeva in quegli anni in termini di presenza di gente in casa ma soprattutto in trasferta: la cosa allucinante erano le 700-1.000 persone che si trovavano in giro per i palazzetti. Entrare nei palazzetti dove abitualmente o non sei considerato da nessuno o vieni fischiato, e ritrovarsi invece accolti da applausi e cori a distanza di 1.000 km era una cosa che ti dava una carica indescrivibile. Penso che il pubblico brindisino sia unico in questo, nel far sentire importanti i giocatori, nel farli sentire coinvolti nella città e negli obiettivi. Io spesso guardo tuttora le immagini della vittoria contro Trapani e mi vengono ancora i brividi>>.

Ma anche la vittoria in gara 5 contro Latina non fu da meno… A proposito di questo: le è mai più capitato di recuperare 11 punti in 1 minuto?

<<Recuperare 11 punti in un minuto non è cosa semplice: tutti dicono che magari sono un po’ fortunato ma io non credo nella fortuna e nella sfortuna. Tutto sta nella capacità di saper cogliere l’occasione nel momento opportuno: penso che la capacità nostra in quel frangente sia stata quella di mettere la palla nelle mani di Muro per prendere quel tiro da tre punti. Anche i liberi sbagliati da Latina non sono stati il frutto del caso ma della pressione del pubblico>>.

 Veniamo alla sua esperienza attuale con Scafati: ha chiuso 1° due anni fa, adesso è 2° in classifica: a proposito della necessità di alzare l’asticella, l’obiettivo è la Serie A?

<<Se succede ce la prendiamo: già la vittoria della Coppa Italia è stata una cosa fantastica per Scafati, così come arrivare in semifinale con Brescia, che poi è stata promossa. L’obiettivo non era quello di andare in A1 così come non lo è quest’anno: in futuro ci saranno 3 promozioni e già si potranno fare discorsi differenti, ma quest’anno ci sarà una sola promozione. Certo, siamo lì tutti a giocarcela e se dovesse accadere sicuramente non ci tireremmo indietro, però  non è l’obiettivo di questo inizio di stagione. L’obiettivo di quest’anno era quello di entrare nei playoff, e penso che anche rispetto alla squadra allestita, al budget ed alle vicissitudini occorse, con Miles che è stato beccato positivo all’antidoping e Sharrod fuori per un infortunio al piede e sostituito con un giocatore che non ha le sue stesse caratteristiche, ci dobbiamo ritenere soddisfatti. Se Scafati avrà la forza mentale di arrivare ai playoff sgombra da qualsiasi pressione potrà davvero diventare la mina vagante; in questo ci credo.

Nel lungo periodo, però, un pensierino alla Serie A lo facciamo: c’è la voglia della società di tornare in A1, dove già è stata>>.

Così si chiuderebbe il cerchio e lei potrebbe finalmente tornare al PalaPentassuglia da avversario per prendersi gli applausi che merita per quello che ha realizzato a Brindisi…

<<Magari. Vediamo un po’>>.

Andrea Pezzuto

(Si ringrazia per la gentile concessione il mensile di basket Trezerocinque)

 

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1 COMMENTO

  1. anzitutto complimenti per l’articolo. Per molti aspetti condivido l’analisi di coach Perdichizzi. diciamoci la verità: dopo i fasti degli anni 80 per circa 15 anni abbiamo calcato campi di serie B ed abbiamo visto giocatori da serie B, quelli per cui alcune volte ti viene da pensare ” forse anch’io avrei potuto giocare a basket a questo livello”. non c’era internet o quasi. era difficile anche sentire una radiocronaca se non eri residente a Brindisi. Tanta era la voglia di basket e tanta era la passione: oltre 4000 persone in B2, la grande delusione del 2007 (per me ancora inspiegabile) con Veroli, la promozione del 2008 con migliaia di persone sugli spalti ed in campo, trasferte in cui c’erano almeno 500 tifosi ovunque (sia che fosse Udine, sia che fosse Jesi), i 2000 di scafati ed i 3000 di Roma, la doppia trasferta a pistoia del 2012 in cui ci fu gente che si fece 4000 km in 48 ore…numeri incredbili a testimonianza di una passione gigantesca. e poi? e poi nonostante l’accesso alle final eight, i grandi campioni come Gibson o Simmons, la partecipazione ai playoff scudetto tutta questa passione è andata progressivamente a diminuire sino a che in trasferta siamo “solo” qualche decina. “appagamento di disputare sempre lo stesso campionato” dice Perdichizzi? qualcun altro dice che mancano i giovani al palazzetto perchè troppo piccolo. sarà vero , ma quella grinta, qulla voglia, quell’orgoglio di risalire la china di dieci anni fa mi sembra purtroppo calato del tutto. ed alla fine rimangono i tifosi veri.

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