«Fare storytelling è un bisogno primordiale. Siamo letteralmente costruiti per capire il mondo attraverso la narrazione. Il nostro pubblico non solo vuole storie, ne ha bisogno. Facendo dello storytelling una parte significativa della tua strategia di contenuti, stai toccando quel bisogno primordiale e aiuti le persone che contano per te a capirti un po’ meglio.»
Lo afferma Joseph Phillips, un giovane londinese che vive facendo il manager e lo stratega di contenuti sul web, il quale sostiene che ogni curatore di contenuti – indipendentemente dal settore in cui lavora e dalla natura dei contenuti a cui sta lavorando – è uno “story strategist”, giacché tutti i contenuti sono comunicazione e la narrazione è la forma più potente di comunicazione che esista.
Applicando alla politica dei nostri giorni questa teoria evolutiva della narrazione, probabilmente riusciremo a comprendere meglio quello che ci sta succedendo intorno.
Fino a qualche anno fa eravamo convinti che la TV generalista avesse avuto il merito (o il difetto?) di trasferire la politica dalla società reale allo spazio mediatico. Così, per quasi un ventennio Berlusconi e le sue televisioni sono state demonizzate per aver stravolto il linguaggio sociale con i suoi format, sostituendo i partiti con le emittenti televisive esplicitamente elevate al rango di delegate alla mediazione politica e orientate alla conquista del consenso elettorale.
Quella fase non è mai transitata attraverso i ‘talk show’ politici, ma si è sviluppata contaminando di specifici contenuti popolari gli spettacoli di intrattenimento. Tra questi, il genere che più di ogni altro mi sembra possa rappresentare il concetto di “storytelling primordiale” (cioè il bisogno innato di raccontare noi stessi per aiutare gli altri a capirci) è sicuramente il “reality”.
Il reality ha incarnato per la prima volta la possibilità per la gente comune di raccontarsi attraverso uno strumento di comunicazione di massa come la tv, garantendo l’attenzione del vasto pubblico televisivo.
E’ in quella fase che si è affermato il mito dell’«uomo comune», portatore singolo dei propri interessi, avulso dal contesto sociale di solidarietà e comunanza che normalmente definisce una società civile. Ed è su questa base che successivamente si sono innestate le dinamiche del social network, che sono stati immediatamente riconosciuti dalla massa come formidabile potenziatore della propria narrazione individuale.
Parallelamente a questo percorso che ha coinvolto milioni di persone, anche la politica è diventata vittima di questi potenti fenomeni di disintermediazione (nessuno rappresenta nessuno, tranne se stesso), regredendo essa stessa a banale narrazione delle emozioni, invece che ancorarsi alla forza dei ragionamenti, delle idealità e dei valori fondanti della comunità.
Lo strapotere dei social rappresenta ormai una variabile indipendente nel dibattito politico, soprattutto quando essi diventano lo strumento dello stravolgimento della verità e della diffusione di vere e proprie campagne d’odio.
L’ennesima prova è stata fornita in questa settimana, quando un giornale on line di dubbia paternità ha lanciato il titolo “Gentiloni choc: gli italiani imparino a fare sacrifici e la smettano di lamentarsi”. Era un titolo falso, ma è stato condiviso 6.000 volte in 12 ore su Facebook, scatenando un festival dell’odio che ha certamente origini nel malessere della nostra società, ma che viene alimentato quotidianamente da notizie false che sui social viaggiano alla velocità della luce. Ma la cosa più incredibile è che nelle stesse ore, editoriali anche piuttosto critici su Gentiloni e il suo governo registravano gradimenti molto diversi: il direttore di Repubblica Mario Calabresi 850 condivisioni; il Buongiorno di Massimo Gramellini sulla Stampa solo 47 condivisioni e infine l’editoriale di Pierluigi Battista sul Corriere appena 15 condivisioni. Vale a dire che i tre maggiori quotidiani italiani messi insieme hanno fatto meno del 15% di Facebook!
Ho il massimo rispetto per i sentimenti di protesta e ribellione che albergano in gran parte del popolo italiano, così come non nutro pregiudizi verso chi è insoddisfatto e vuole impegnarsi per cambiare.
Non riesco però a sentirmi rassicurato da questa sia pur straordinaria partecipazione popolare al dibattito politico, se il suo segno distintivo continua ad essere quello delle campagne d’odio che si susseguono incessantemente, supplendo al vuoto di idee e di proposte concrete.
Non credo sia questa la narrazione di cui il Paese ha bisogno!
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