Non è dato sapere quando termineranno gli atti di contrizione e i “mea culpa” della nota giornalista Milena Gabanelli. Sono iniziati, per quanto ci riguarda, criticando il “blocco” di alcuni impianti fotovoltaici a Brindisi e sono continuati con i mea culpa sulla vicenda del rigassificatore. E’ plausibile che tale mutamento di pensiero possa far sorgere qualche dubbio sulle sue passate inchieste grazie alle quali è divenuta la famosa “Milena Gabanelli” icona del giornalismo d’inchiesta. Grazie a questa fama – è bene ricordarlo – ebbe l’onore di essere indicata quale candidata alla Presidenza della Repubblica dal M5S.
Non è vietato cambiare idea, ci mancherebbe! Sarebbe bene, però, farlo tenendo presente i diversi momenti e contesti storici. Approfondendo e spiegando meglio le problematiche che hanno indotto al “ravvedimento”, possibilmente con un maggiore puntiglio di quanto, evidentemente, si ritiene di non aver fatto nel passato. E’ ovvio che tali “mea culpa”, specie quando sono autorevoli, vengono sempre sfruttati, come nel caso del rigassificatore di Brindisi, dal “sistema” che trae giustificazione e vigore per un nuovo attacco alla diligenza rinnovando le tante speculazioni sui territori.
Personalmente sono sempre stato convinto che la mancata realizzazione a Brindisi del rigassificatore fu causata non dalla massiccia mobilitazione popolare e condivisa dalle istituzioni (Comune, Provincia e Regione) ma da ben altro. E’ bene precisare che la protesta contestava il sito prescelto per l’impianto, tant’è che lo slogan fu “No al rigassificatore a Capobianco”. Mi sono sempre chiesto se la British Gas avesse deciso di farlo in un altro sito, sarebbe mai nata una mobilitazione popolare di quelle dimensioni? Non credo e non lo sapremo mai, la BG non prese mai in considerazione tale ipotesi, per una ragione molto semplice, pensava di avere in pugno la situazione e perché collocarlo a Capobianco le permetteva di risparmiare centinaia di milioni di euro.
Un po’ come accade oggi col deposito di gas progettato da Edison a Costa Morena Est, su un sito strategico per il porto, si sacrificava ieri come oggi la portualità per interessi aziendali non pensando a quelli generali.
Ma se la mobilitazione popolare fu importante (e lo fu certamente dal punto di vista sociale e d’identità territoriale) ma non decisiva per impedire la costruzione del rigassificatore, cosa in realtà fermò quel progetto? Altri interessi economici e diverse strategie industriali, oltre ovviamente alle tante irregolarità, illegalità e reati di cui la vicenda fu disseminata. A chi dava fastidio, allora, “l’odore del gas”? Forse allo stesso Stato o, per meglio dire, alla sua controllata Enel? Il colosso energetico in quel periodo storico non aveva alcuna intenzione di cambiare il combustibile delle sue centrali: il carbone. Questo fu uno dei motivi che la spinse ad uscire dopo poco più di un anno dalla società Brindisi LNG SpA, lasciandola alla sola British Gas, con la quale era entrata in “affari”, presumibilmente, per meglio controllare e monitorare la situazione. Ed è anche sotto questa luce che andrebbe vista la scelta dell’approdo di Tap a Melendugno e non a Brindisi. Qui, nella zona industriale o a Cerano, sarebbe stato troppo vicino alla centrale elettrica, meglio tenere lontane le “tentazioni”.
Il TAP, a dispetto di una notevolissima, vasta e agguerrita mobilitazione popolare, si è realizzato comunque, anche con scelte peggiori e più costose che hanno inflitto, col metanodotto, una ferita al territorio lunga 55 Km.
Pura teoria? Possibile, ma è certo che in Italia chi ha dettato l’agenda, imponendo la propria strategia industriale, è stata l’Enel, mai il contrario.
Bisogna interrogarsi, come riconosce la stessa Gabanelli, sui motivi cha hanno impedito all’Italia di dotarsi di un serio piano energetico e sul perché non si sono sviluppate in modo altrettanto serio le energie rinnovabili. A chi è convenuto? Si è lasciato, irresponsabilmente, ad un “sistema” composto da vari poteri la possibilità di consumare le peggio speculazioni sul territorio e che oggi trova un nuovo “vigore” con i “mea culpa”.
Giorgio Sciarra