Finalmente, dopo lunghi anni di silenzio, si torna a parlare di Mezzogiorno. La Cgil non può che salutare con favore il piano messo a punto dal governo e dal ministro per il Sud e la coesione sociale, Peppe Provenzano, che opportunamente torna a mettere al centro dell’azione politica una parte fondamentale del Paese, per troppo tempo abbandonata a se stessa e dimenticata dalla politica se non in occasione delle varie elezioni, quando le promesse non mancano. Le tante misure annunciate dal premier Giuseppe Conte hanno l’ambizione di rimettere in moto un’economia mortificata, una pubblica amministrazione arruginita, un’industria obsoleta, arrivata a un punto di non ritorno. La questione ambientale, quella scolastica, quella lavorativa sono state messe giustamente al centro dell’intero progetto che prevede provvedimenti immediati e a medio e lungo termine per garantire risultati strutturali e duraturi: nei prossimi tre anni, dal 2020 al 2023, secondo le previsioni del governo saranno spesi 21 miliardi per il Sud, pari al 65% in più rispetto al triennio 2016-18, e oltre 123 miliardi saranno investiti fino al 2030.
L’obiettivo, ambizioso quanto necessario, è quello di bloccare l’emorragia di giovani meridionali che abbandonano i paesi e le città d’origine per cercare il proprio posto nel mondo altrove, al Nord o all’estero. Quella dei flussi migratori, infatti, è la vera emergenza meridionale: tra il 2002 e il 2017, gli emigrati dal Mezzogiorno, secondo un nostro studio, sono stati oltre 2 milioni, di cui oltre 132mila solo nel 2017; di questi ultimi, oltre 66mila sono giovani di cui il 33% laureati, cioè oltre 21 mila persone. Il rischio dello spopolamento delle aree del Mezzogiorno tra 50 anni sarà una certezza: nel 2065, a questi ritmi, si prevede che al Sud ci saranno 4 milioni di residenti in meno con un terzo di popolazione di oltre 65 anni. Cercare di invertire questo trend, quindi, è un obbligo e bene sta facendo il governo a impostare una sorta di piano Marshall che rappresenti un’iniezione di adrenalina per un Sud che al momento ha un tracciato piatto. Bene, buono, giusto.
Ma, come spesso capita, c’è un ma: leggendo le carte, analizzando i documenti e interpretando i numeri pare emergere un buco nero sulla mappa degli interventi previsti dal piano. Tra i potenziamenti della rete stradale e ferroviaria, con gli oltre 33 miliardi annunciati per gli interventi sul collegamento Ragusa-Catania, la statale 106 Jonica, la strada 121 catanese, la statale 268 del Vesuvio, la statale 17 dell’Appennino abruzzese e appulo-sannitico, la statale 16 adriatica, il raccordo autostradale 02 Salerno-Avellino, la linea Av-Ac, alta velocità – alta capacità, Salerno-Reggio Calabria, la linea Av-Ac Napoli-Bari e linea Messina–Catania, il rafforzamento delle Zone economiche speciali, le Zes, il piano Export Sud, il sostegno al sistema portuale, c’è una grande assente. Mentre all’interno del maxi progetto per il Meridione si legge a chiare lettere del “Cantiere Taranto”, capitolo sacrosanto e fondamentale per la città dell’ex Ilva che mira a una rinascita green dell’area Ionica, nulla porta la mente, anche producendosi in uno sforzo di interpretazione tecnica, alla questione Brindisi.
Come CGIL Brindisi sono anni che denunciamo l’abbandono della città che sta rapidamente battendo tutti i record negativi di qualità della vita, da ogni punto di vista: tutti gli indici relativi a tutti i settori puntano verso il basso, senza lasciare neanche una speranza di una futura ripresa a lungo termine, figuriamoci nel breve periodo. Nel primo mese dell’anno, ad esempio, sono state già dieci le aziende che hanno dichiarato fallimento nella provincia di Brindisi. Un trend che se dovesse essere confermato potrebbe registrare la chiusura nel 2020 di oltre sessanta aziende. Un dato allarmante per l’economia del territorio, per le imprese, per i lavoratori impiegati e anche per i creditori. Negli ultimi due anni 1500 brindisini sono finiti per strada senza lavoro: lavoratori impegnati nell’indotto del Petrolchimico, di Enel, dell’aerospazio ma anche nel siderurgico tarantino. Di questi più della metà sono metalmeccanici. Preoccupanti sono anche le prospettive future in vista della definitiva chiusura della centrale a carbone Enel di Cerano prevista nel 2025. La chiusura definitiva della centrale spazzerà via altri 1500 lavoratori insieme ad altre centinaia di lavoratori dell’ indotto portuale. È necessario un piano industriale capace di un intervento pubblico su un diverso sviluppo industriale ecosostenibile del nostro territorio.
Brindisi è una bomba a orologeria che è pronta a esplodere se non diventa un core business, inteso come tema di priorità assoluta, per la politica, centrale e locale.
La decarbonizzazione, ad esempio, sta procedendo con la sua navigazione a vista, senza meta: detto dell’Enel che sta ripiegando e, allo stato attuale, potrebbe determinare la perdita complessiva di circa 1200 Lavoratori senza un piano che rappresenti una valida alternativa, la crisi del sistema portuale, della quale come sindacato abbiamo ampiamente parlato (si è tenuto un incontro monotematico sulla crisi del porto al MISE con tutti gli attori interessati) ma senza in realtà registrare ancora alcun atto Governativo risolutivo, sta mettendo in pericolo addirittura la centralità che la città possiede da millenni. Il tema principale è quello della riconversione industriale del porto e del connesso retroporto: la decarbonizzazione, infatti, rischia di portare alla perdita di duemila posti di lavoro, come stimato dall’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Meridionale. Non si può prescindere da una programmazione che promuova sviluppo sostenibile e permetta di migliorare ambiente e qualità della vita dei cittadini, garantendo però al tempo stesso la difesa dei posti di lavoro e dell’intero indotto di un porto turistico, commerciale e industriale fra i più importanti del mar Adriatico.
Purtroppo il percorso è in salita: a Brindisi gli indicatori di riferimento tra cui disoccupazione, cassa integrazione, dispersione scolastica, povertà assoluta e povertà relativa sono preoccupanti. La città purtroppo non è mai uscita dal cono d’ombra del carbone, a cominciare proprio dal porto. Sono necessari al più presto investimenti per migliorare la qualità delle infrastrutture, per integrare meglio e rendere funzionale la rete logistica, individuare una ‘zona franca’ come sta avvenendo per il porto di Taranto e poi accelerare con le Zone Economiche Speciali. La transizione energetica non la deve pagare il mondo del lavoro.
Siamo un territorio con una delle dispersioni scolastiche più alte in Italia, con le future generazioni che potrebbero essere meno istruite delle precedenti. Sono, queste, solo alcune delle maggiori criticità di una città che sta vivendo un periodo di regressione e di involuzione che dura da decenni: il Piano per il Sud, quindi, dovrebbe rappresentare un’occasione irripetibile per quello scatto di reni di cui Brindisi ha estremo bisogno. Invece le carte dicono che la “questione Brindisi” ancora non è stata considerata.
C’è bisogno, quindi, di fare corpo unico per far sentire la nostra voce: politica, istituzioni, sindacato, società civile devono mettersi insieme per far arrivare il grido di grave sofferenza di tutto il territorio fino a Roma, fino ai banchi del governo che non deve far finta di non vedere: il piano per il Sud è un’occasione preziosa che, però, deve tenere in conto le specificità e le criticità di tutte le aree del Meridione che negli anni hanno pagato un pesante tributo in termini di sfruttamento, inteso nel senso più ampio del termine.
Brindisi, per questo, ha già dato e si trova davanti delle sfide cruciali che potrebbero determinare la sua tanto agognata rinascita o, viceversa, il suo definitivo fallimento. Il momento, quindi, è solenne: la responsabilità delle sorti di una delle parti più belle e più importanti della Puglia e dell’intero Sud d’Italia passa anche e soprattutto dalle misure che il provvedimento governativo metterà a disposizione e dalla capacità degli attori locali di sfruttare le opportunità messe a disposizione. La posta in palio è il futuro delle prossime generazioni, sempre più in bilico tra la speranza di un cambiamento e la rassegnazione a un destino segnato dall’emigrazione e dalla precarietà.
Il Segretario Generale
Antonio Macchia