I (mis)fatti sono noti, letti e commentati in tutte le salse, visti, anche alla moviola, fino alla nausea. È il salatissimo prezzo che paghiamo per il mostruoso modello informativo che da anni ci opprime. I più ingenui, o i più moralisti, si indignano, si scandalizzano, come se queste aberrazioni fossero cose nuove e magari evitabili. No, sono cose antiche, ricorrenti e ineludibili, ab ovo, perché non c’è nessuna intenzione di cambiarle. Volendo proporre una rapida carrellata sui tumulti parlamentari più celebri, ricordo che la prima rissa della storia repubblicana risale a settantasette anni fa. Era il 3 dicembre 1947 quando, durante una seduta dell’Assemblea Costituente presieduta dall’on. Umberto Terracini (P.C.I.), tra comunisti e monarchici volarono non gli stracci ma tavolette, oggetti, secrezioni salivari e una macedonia di schiaffi, pugni e calci. I più bellicosi tra i “compagni” furono Pajetta e Moranino, mentre tra i “nostalgici” si fece onore il campano Alfredo Covelli. Un paio di anni dopo, nel 1949, altra violenta gazzarra occorsa sia alla Camera che al Senato per l’adesione italiana al patto Atlantico (entrata nella NATO), inviso alle sinistre. Da registrare poi gli spintoni e gli schiaffi scambiati tra comunisti-socialisti e democristiani in occasione dell’approvazione della c.d. “Legge truffa” (L.148/1953) voluta da Alcide De Gasperi per blindare la maggioranza della D.C. E ancora le intemperanze trentennali del mitico Giancarlo Pajetta (PCI), le imprese dei missini Teodoro Buontempo, detto “Er pecora”, di Pino Rauti, “Il figlio del sole”, di Francesco Storace, detto ”Epurator”… Poi arrivarono gli anni ’80, il boom dei radicali, le provocazioni di Marco Pannella e di Roberto Cicciomessere, personaggio di spicco dei radicali e compagno di merende e di vita di Emma Bonino. Una volta, per contestare il Regolamento della Camera, “Superciccio” saltò sul tavolo della Presidenza, dove troneggiava la Madonna laica Nilde Iotti, ma, a causa dell’eccessivo slancio (troppa grazia S. Antonio) cascò a terra, lì venendo subito giustiziato a calcioni dai deputati comunisti… Nel 1994, Presidente col foulard una giovane Irene Pivetti, per il decreto ”Salva Rai”, super zuffa tra quelli di An (si distinguono per becera animosità i gentlemen La Russa, Storace e Passetto) e i Verdi e quelli del Pds. Il contestato è il povero relatore Mauro Paissan (gruppo Verdi- L’ulivo), reo di essere un “finocchio con le unghie laccate”. Va a finire che quello che si becca un bel pugno in faccia è Franco Voccoli del Prc. Seguirono le solite, ipocrite, innocue sospensioni di una decina di esagitati… Nell’estate del 2004 i leghisti portano l’assalto a Roberto Giachetti, della Margherita, il quale, terreo come Nosferatus, finisce in infermeria assieme ad alcuni colleghi. Altra storica aggressione quella del 7 luglio 2010, quando Franco Barbato di IdV va al tappeto colpito da un gancio sferrato da uno dei tre “galantuomini” del Partito della Libertà, tutti sospesi in mancanza di una identificazione certa del reo (Giovanni Dima, Fabio Rampelli e Claudio Nola). Nel 2017, in una discussione sullo jus soli a Palazzo Madama, la senatrice del P.D. Valeria Fedeli viene spintonata con violenza da un commando leghista e finisce in infermeria. Il capogruppo del Lega Gian Marco Centinaio dichiarerà che la Fedeli non è stata colpita ma … che è caduta da sola. Questa scusante non ci suona nuova, anzi è ricorrente. Il pentastellato salentino Leonardo Donno è un “provocatore buono”. Quelli “cattivi” restano Luca Leoni Orsenigo, il leghista che nel ’93 sventolò nell’aula di Montecitorio il cappio quale soluzione finale contro “Roma Ladrona”, e la coppia di mattacchioni Gramazio-Strano (An) che nel gennaio 2008, a Palazzo Madama, per festeggiare la caduta del governo Prodi, ingurgitarono fettone di mortadella accompagnandole con dello spumante bevuto a canna. Tornando all’ultima vergognosa gazzarra, l’on. Donno voleva solo consegnare nelle mani del ministro Calderoli un piccolo tricolore per protestare contro l’“Autonomia differenziata”, che già fa schifo dalla denominazione, visto che richiama subito l’immondizia. Il Super leghista però, come un vampiro di fronte a una collana d’aglio, è subito rinculato inorridito, favorendo così l’avanzata del galatinese. E qui si è scatenato l’inferno, con quell’orda di energumeni che ha sfondato il debole muro dei commessi per raggiungere il barbuto bersaglio. Tra i più facinorosi tale Igor Iezzi, detto “Igor il terribile”, in giacca da maïtre. Un vero assalto squadrista, e non una “rissa” come l’hanno definita alcuni politici e giornalisti in mala fede. “È stata solo una sceneggiata!” ha dichiarato Federico Mollicone, l’intellettuale in forza a F.d.I., attento “varista” delle riprese passate al rallenty, subito spalleggiato dal capogruppo Foti. In questa bagarre non sono mancati ulteriori episodi di contorno a metà tra il patetico e la farsa. Il leghista dal biblico nome Furgiuele che ha mimato la lettera X della “Decima Mas” per poi dirottare sulla fantasiosa smentita-precisazione “No, era solo il segnale di “No” in uso a X Factor”. Il piddino Nico Stumpo, beccato in un lancio di sedia verso l’emiciclo che ospita gli avversari, il quale si è giustificato affermando che il suo era “solo un gesto dimostrativo perché non volevo colpire nessuno”. Infine la performance di tale Toni Ricciardi, P.D., che, un po’ alla maniera di Toti (Enrico, non Giovanni!), ha dato un paio di stampellate sul petto del fratello d’Italia Fabio Petrella. Malgrado il goffo tentativo di minimizzazione operato dal capogruppo leghista Molinari (“Sono dinamiche parlamentari”), tutti i colpevoli, provocatore incluso, sono stati sospesi per un po’ di giorni, come fossero esuberanti studentelli, e non è azzardato pensare che potranno rientrare in aula solo se accompagnati da un genitore.
Signori miei, veniamo al dunque. Intanto i commessi gallonati non sono in grado di proteggere nessuno né di impedire assalti di sorta. Licenziateli o convertiteli in bodyguard, dopo un intenso corso di addestramento. Nel caso remoto in cui, dopo quasi ottant’anni, si volesse davvero voltare pagina, non resta che una soluzione. Riscrivere una volta per tutte i blandi regolamenti “Ad usum delphini” in vigore nelle due camere. Estrema severità, chiarezza, applicazione costante “senza ser e senza ma”. Sanzioni esemplari: lunga sospensione e pene pecuniarie pesanti già a partire dalla prima infrazione, ancora pena pecuniaria pesantissima e immediata decadenza dall’incarico con subentro del primo avente diritto, nel caso di recidiva.
Insomma per essere “rappresentanti del popolo” non basta l’abito con cravatta. Ci vuole anche l’abito mentale. E la serietà. E l’educazione. Siamo stufi dei molti rappresentanti della plebe”. Che qualche organismo ben organizzato avvii una campagna di sensibilizzazione, una raccolta di firme da presentare al Presidente Mattarella perché siano riformati i regolamenti di Camera e Senato. Se questo non succederà, le percentuali di astensione al voto raggiungeranno presto quote altissime e sarà la fine della democrazia.
Gabriele D’Amelj Melodia