Il filo rosso che lega i saggi, prodotti da architetti, urbanisti, sociologi, è lo stretto rapporto tra il commercio, pratiche di consumo ed organizzazione dello spazio urbano, che costituisce uno dei principali assi lungo i quali si è snodata la vicenda della città fin dall’antichità.

E’ proprio grazie agli scambi, ai commerci che lungo le grandi vie di comunicazione nascono le città, si può quindi, ragionevolmente, parlare di compenetrazione se non proprio di fusione fra commercio e città.

A che servono i negozi, le botteghe, i bar o i ristoranti nei centri delle città? No, non servono solo a far cassa. Per quello basta un centro commerciale, uno dei tanti che punteggiano le uscite autostradali. I negozi cittadini, o meglio «le botteghe», così come i bar, le osterie e i ristoranti sono più di un registratore di cassa, sono parti vitali di un essere vivo e pulsante: la città. Solo chi non ha capito cosa è una città, come e perché è nata e perché sopravvive, può pensare ai negozi come meri luoghi di commercio o avamposti del consumismo moderno. Le botteghe cittadine sono una delle realtà più antiche del nostro Paese, uno dei fenomeni attraverso i quali si è manifestata in maniera più evidente l’imprenditorialità diffusa della nostra gente, e attorno ai quali brulicava la vita di paese e quella socialità che tutto il mondo ci invidiava.

Le città sono equilibri delicati, sono luoghi di economia, ma anche di socialità e cultura, e queste tre anime, economica, culturale e sociale si sostengono reciprocamente. Non si va in un’osteria in centro solo per sfamarsi, ma perché prima si può fare un aperitivo nel corso e dopo una passeggiata in piazza. E raramente si va in centro solo per vedere un monumento o comprare un oggetto, ma perché sappiamo che mentre siamo lì possiamo incontrare persone che conosciamo, fare due chiacchiere, e allora sì, anche comprare il pane, il caffè, o giocare la schedina. E mentre passeggiamo in centro magari vediamo i cartelloni del teatro o del cinema e ci viene pure un’idea per la serata. Questo è il ruolo e l’essenza delle città. Luoghi vivi fatti per vivere. E in quest’ottica ogni piccolo elemento ha una sua funzione che non è meramente economica o sociale, ma un po’ tutto assieme. Nel suo capolavoro The Death and Life of Great American Cities l’urbanista Jane Jacobs fece un’accurata descrizione di come i marciapiedi, per esempio, siano uno strumento fondamentale per la struttura sociale della città, luoghi in cui le persone si fermano a parlare, e in cui i bambini possono giocare. E così come i marciapiedi è importante il ruolo delle finestre, dei portoni, delle vetrine. Perché porte, finestre e vetrine aperte danno aria, vita e luce alla città e sono il miglior antidoto contro l’abbandono, il degrado, la delinquenza. Chi vede la città come un mero agglomerato di funzioni distaccate e distaccabili o addirittura contrapposte – il lavoro da una parte, il consumo dall’altra, la socialità in un’altra ancora – non solo non ha capito cos’è una città, ma la condannerà alla morte certa. Così come è già accaduto a molte città straniere e purtroppo anche da noi. La città ha bisogno di essere viva, libera e spontanea, e per farlo ha bisogno di elementi diversi e complementari: arte, musica e commercio, tradizione e modernità, italiani e stranieri. E la politica dovrebbe aiutarla a trovare soluzioni innovative per far convivere spontaneità ed esigenze di tutti.




Oggi il commercio non è fatto solo di negozi e di luoghi o non luoghi, quali sono ad esempio i centri commerciali, attraverso internet è possibile acquistare in tempo reale in qualunque luogo del mondo. Quindi la città e quindi il commercio come luogo delle relazioni sociali.

Sono dunque queste le ragioni che ci hanno portato ad elaborare un piano portasse alla creazione del Distretto Urbano del Commercio, avere la città vera, con le sue stradine con le sue piazze, con piazza mercato restituita alla sua originale dignità ovviamente attualizzandola, come fondali unici per una straordinaria rappresentazione della città. I corsi sono nati per permettere un più rapido collegamento tra la stazione ed il porto…i corsi soprattutto dopo quello squallido maquillage non sono la città sono solo una caricatura di una galleria commerciale, neanche tanto attraente.

Immaginare l’attrazione di una piazza mercato sul modello del mercato di san  Miguel a  Madrid oppure la Boqueria a Barcellona, strutture moti simili architettonicamente a quella brindisina,  significherebbe cominciare a pensare ad una città diversa una città con un anima, con una sua connotazione, gli scorci suggestivi del nostro centro storico pieni di vita e non assediati dalle automobili. La politica della città è trasversale alle altre politiche, urbanistica, traffico, commercio, servizi sono un’unica faccia di un problema complesso, non ci sono soluzioni semplici o piccoli spot che possono invertire una tendenza che ha di fatto desertificato il centro cittadino.

Ben vengano gli eventi che costellano parte dell’estate brindisina, o i croceristi, ma il commercio di una città non può essere legato solo ad eventi che comunque hanno una loro vita e che solo marginalmente lo possono interessare una città vive 365 giorni all’anno. L’apertura di nuovi centri commerciali attraverso procedure che saranno sicuramente legali, rimane da comprendere come fa un centro nato ed autorizzato per essere  “no food” a diventare qualcosa di diverso, ocome si possano accorpare licenze che viaggiano da un rione ad un altro,  contraddicendo tutti gli strumenti di cui  si è dotato il comune di Brindisi a partire dal piano del commercio adottato nel 2013.  Tutto questo va oggettivamente in una direzione opposta a quella di un rilancio dell’attività commerciale della città. Visioni confermate dal codice del commercio e quindi dei  Duc (distretti urbani del commercio) adottati recentemente dalle regione Puglia e che a Brindisi non sono mai stati recepiti.

Gli stessi interventi effettuati nel vecchio mercato del pesce sono un altro esempio di azioni fini a se stesse slegate da una visione d’insieme, decontestualizzate ma che producono effetti negativi rispetto all’investimento effettuato al punto che gli stessi commercianti si rifiutano di entrarci.

Questa mancanza di programmazione certa non agevola certo potenziali investitori che in assenza di una pianificazione di lungo periodo rifuggono da qualunque investimento nella nostra città e scelgono lidi più sicuri. La desolazione del centro cittadino e del nostro lungomare ne sono l’esempio più evidente.

Brindisi è stata una delle prime città della Puglia ad aderire ai progetto dei Duc,ma purtroppo quello strumento per ragioni che andrebbero approfondite è sempre rimasto nei cassetti delle varie amministrazioni, sarebbe il caso di approcciarsi finalmente in maniera moderna e non occasionale a quella che in una città post industriale quale ormai si avvia ad essere Brindisi può rappresentare l’unica occasione di sviluppo e di lavoro per i nostri giovani costretti ad oggi ad emigrare o a fare la fila per un posto di commesso in un centro commerciale.

Socialisti & Democratici 

Raffaele Mauro




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